Ca' d'Industria a Rebbio

La Ca’ d’Industria a Rebbio è indubbiamente un’architettura progettata da Enrico Mantero per essere inserita nel contesto comasco, ben sapendo di avere svolto un’esperienza pro gettuale legata, a livello generale, alla cultura architettonica del tempo e al dibattito in atto a livello internazionale, nonché all’interpre tazione delle esigenze civili della città, la sua città. Como non era solo il contesto di molte delle sue architetture, ma il paesaggio naturale e antropizzato, la scena fisica di una geografia e di una storia che conosceva punto per punto, periodo per periodo, edificio per edificio. Enrico Mantero ha sempre interpretato operativamente nella sua professione e nell’insegnamento quell’identità da cittadino-architetto espressa come monito morale da Ernesto Na than Rogers, di cui era stato allievo prima e assistente poi; una volta nominato professore ordinario fu così uno dei pochi docenti che univano la ricerca architettonica all’esperienza professionale, un docente che costruiva e sape va costruire. La Ca’ d’Industria è un prodotto specifico di questo laboratorio integrato di composizione architettonica che si misurava su temi civili concretamente espressi da una società in continua dialettica politica e socio-economica, che assumeva i contesti di applicazione rapportandosi puntualmente con la storia e la loro geo grafi a fi sica, frutto di politiche di intervento materializzate nelle preesistenze architettoniche e ambientali con cui si doveva fare i conti per legittimare gli elementi della nuova architettura. Era vincente la capacità di proporre temi che avessero riscontro nelle riforme dei sistemi istituzionali in grado di interpretare in modo progressivo quelle funzioni di vita associata in cui la società civile si rappresentava.
Enrico Mantero assumeva – come per Ernesto Nathan Rogers erano la scuola, il teatro e il car cere –, temi didattici e di ricerca architettonica operativa, quali la scuola secondaria, l’università, il museo, anticipando e dando contributi operativi ai processi che a livello istituzionale sarebbero poi emersi come strategici, ma soggetti a una dialettica politica spesso senza esiti riformatori di lungo periodo. Il tema della casa di riposo, a differenza degli altri espressi nell’ambito universitario, nasce per Enrico Mantero dalle esigenze del conte sto comasco come commessa professionale. È un tema che già aveva trovato riscontro in ambito europeo nei processi d’invecchiamento della popolazione, che nei contesti industriali socialmente allora più evoluti come l’Olanda, la Svizzera, la Francia, avevano prodotto esperienze – come Atelier 5, H. Hertzberger e altri – e architetture funzionali di grande livello e tradizione. Le tradizioni architettoniche olandesi e svizzere erano riconosciute da Enrico Mantero non solo per lo spessore espressivo e compositivo, ma perché portatrici di evidenti segni di una continuità culturale con scuole architettoniche in grado di rigenerare gli elementi originali della propria cultura espressiva e materiale, in particolare quelli del Movimento Moderno. Il progetto nasceva da un programma di ampliamento dell’offerta di servizi per anziani di una storica istituzione comasca – oggi Fondazione Ca’ d’Industria onlus – e prevedeva una nuova struttura da edificare nell’area di Rebbio. Il contesto urbano era contiguo alle aree che la proposta CM8 del Piano Regolatore di Como (1938) del gruppo diretto da Giuseppe Terragni, aveva individuato per la localizazione del quartiere autosufficiente di Rebbio. Il paesaggio qui è caratterizzato dalle balze moreniche che salgono allo sperone del Baradello che divide la convalle della città murata dalla piana di Camerlata. Su quelle balze orientate a sud, alcune preesistenze come Villa Giovio e alcuni cascinali costituivano un paesaggio naturalisticamente integrato a quello che oggi è il Parco Regionale della Spina Verde, nell’area del Baradello, in una situazione per alcuni aspetti analoghi a quelli del Convento di La Tourette di Le Corbusier. L’inserimento della nuova struttura nel sistema della sanità comasca costituiva per Enrico Mantero la conferma dei processi d’integrazione delle funzioni urbane e del loro consolidamento strategico, quello che allora si presentava come un processo innovativo tendente a contrastare la segregazione delle attività di ser vizio dalla residenza e dagli altri servizi, supportata da una visione innovativa dell’accessibilità alle strutture attraverso l’organizzazione dei sistemi di trasporto pubblico. Il programma funzionale viene interpretato da Enrico Mantero attraverso criteri di accessibilità e di posizionamento rispetto alla morfologia del terreno e alla necessità di prevedere percorsi pedonali di collegamento dei diversi livelli in grado di intersecare le funzioni ricettive in punti definiti. Il primo schema di progetto si configura con un corpo di fabbrica lineare su più livelli di cui quello a terra contenente le attività comuni e di servizio, mentre ai piani superiori le unità ricettive. I percorsi esterni hanno una giacitura autonoma che contrasta con la forte caratterizzazione geometrica degli spazi per le diverse attività. Un secondo schema coinvolge i percorsi come segno interno alla distribuzione funzionale delle attività in grado di definire negli interstizi gli spazi poli funzionali. Alla soluzione definitiva che blocca la tipologia a corte della struttura, Enrico Mantero arriva attraverso la gestione progettuale di una dialettica fra un corpo a C verso monte, destinato alle unità ricettive, e un corpo lineare, destinato alle attività di servizio. La chiusura a corte viene quindi verificata in funzione della cliviometria che viene quindi assunta come soluzione definitiva, rinunciando in via di principio alla forte caratterizzazione geometrica iniziale delle attività di servizio, e privilegiando il criterio di composizione per sezioni che ha sempre informato la metodologia compositiva dell’architetto Mantero. Anche qui è evidente nell’approccio il riferimento alla tipologia del Convento di La Tourette citato prima, che supera quelle che avrebbero potuto essere interpretate come analisi critiche di una procedura alternativa ascrivibile all’architettura di Louis Kahn. Acquisita la figura che sottende la morfologia e la tipologia dell’edificio, e individuati gli elementi dello specifico fenomeno architettonico attraverso la procedura tutta artistica dello straniamento della forma, la composizione architettonica procede attraverso la ricerca dell’identità degli elementi e l’individuazione delle reciproche relazioni. Due schizzi mostrano con evidenza i passi di questa ricerca. Lo schizzo prospettico definisce i differenti caratteri dei corpi di fabbri ca che contornano la corte, il corpo diagonale di collegamento e il corpo di accesso alla struttura sul quale si intravede una prima definizione delle aperture e delle coperture. Le sezioni trasversali, decisamente lecorbuseriane, ipotizzano la sopraelevazione dei corpi a valle per dare trasparenza al patio interno. Il progetto realizzato, pur rinunciando ad alcune di queste induzioni architettoniche, sviluppa i caratteri distributivi della struttura in modo da rendere compatibili i percorsi lineari dei corpi che delimitano la corte e il percorso trasversale che, rompendo in quota la corte, collega gli spazi collettivi indipendentemente dai corridoi interni di servizio alla degenza. Le scelte di composizione delle facciate, volutamente eclettiche, si muovono nell’ottica della diversificazione fra le sequenze esterne più omogenee verso nord, est e ovest, e quel le interne alla corte maggiormente articolate e controllate verso sud, con pesanti frangisole di cemento armato secondo repertori volta a volta ascrivibili a diversi atteggiamenti critici del tradizionale rapporto tra forma e funzione indotti ad esempio nell’architettura di Paul Rudolph. L’espressione e la cultura materiale del progetto dipende fortemente dalla scelta strategica del cemento armato a vista sapientemente trattato nelle diverse allitterazioni: strutturali, di involucro e di copertura. Il progetto della Ca’ d’Industria a Rebbio, come si è visto, precede i rilevanti investimenti fatti alla fine degli anni Ottanta nell’edilizia sanitaria e socio assistenziale e nasce senza una copertura normativa coerente, confermando che quello di Enrico Mantero è un approccio extra legem che interpreta operativamente fenomeni come quello del superamento delle barriere architettoniche e delle dotazioni delle unità ambientali che vedranno successivamente la messa a punto di specifiche normative, a livello nazionale e regionale, in funzione degli adempimenti gestionali quali gli accredita menti e le autorizzazioni al funzionamento. La presenza della struttura nel contesto di loca lizzazione ha mantenuto i caratteri morfologici originari soprattutto nel rapporto con l’intorno, ossia il paesaggio, mantenendo la qualità ambientale delle condizioni di impianto. È inoltre significativo che nella balza antistante Mantero abbia realizzato un piccolo intervento residenziale di case a schiera che ben si armonizzano nella loro conformazione con la struttura assistenziale. I due elementi lasciano intravedere un modello insediativo basato sul rapporto residenza-servizi che hanno integrato nell’esperienza professionale di Enrico quella visione di unità fra urbanistica e architettura in cui profondamente credeva e che forse già Cesare Cattaneo aveva anticipato nel progetto per la Casa dell’Assistenza nel 1935.

[LUIGI CHIARA da MANTERO: CENTO ANNI DI ARCHITETTURA]