L'area Lago a Como

Gianni ed Enrico Mantero, padre e figlio. Lega ti, oltre che da vincolo familiare e d’affetto, dal legame forte di un mestiere condiviso. È impor tante leggere la loro vicenda per via di continuità, ma anche per differenze e per contrasti. Vi sono due sentimenti di appartenenza forti che li accomunano, e che pure sono stati diversamente immaginati e vissuti. La prima appartenenza è a Como, alla loro città. Non era
il luogo d’origine della famiglia, che veniva dal sud del Piemonte, ma si impone come la città di Gianni e diviene in modo naturale ed immediato quella di Enrico, che vi nasce e vi cresce.
La seconda appartenenza è all’avventura dell’architettura moderna e del Razionalismo. Gianni vi partecipa da protagonista e da pioniere, ma dentro un quadro di dubbi e ricerche, di con trasti e alternative, connaturati ai dilemmi del tempo. Enrico, per ragioni d’età e di famiglia, è invece il giovane che si sente investito della responsabilità di raccontare e ricomporre una storia, di cui ha sentito e di cui conosce opere
e persone; insieme pensa di doverne raccogliere
come architetto l’eredità, pur sapendo che non
è possibile in modo lineare. Così accade che nel
suo racconto la storia si converta in epopea: e
che come epopea venga vissuto anche il com pito di corrispondere in modo nobile e civile ai
problemi nuovi dell’architettura.
La storia della famiglia è conosciuta, perché essa
ha avuto un ruolo di rilievo nella vita di Como
e nel suo processo di sviluppo. A Novi Ligure,
in provincia di Alessandria, i Mantero avevano
un laboratorio di maglieria e un negozio colle gato. Ed è da Novi che Riccardo, fratello mag giore di Gianni, si trasferisce nel 1902 a Como,
prima svolgendovi un ruolo di commerciante,
poi inserendosi progressivamente nel campo
della produzione. Buona parte della famiglia
viene coinvolta nelle attività imprenditoriali.
Giovanni o Gianni, “l’unico della famiglia che
non scelse questa attività, preferì impegnarsi ne gli studi di ingegneria, cominciando nel 1913 a
frequentare a Milano il biennio dell’Accademia
di Brera, obbligatorio per gli ingegneri civili”.
Un destino, quello di Gianni, deliberatamente
diverso e parallelo. Ma la storia della famiglia
conserva ciò nonostante una sua unità, non solo
per frequentazioni d’ambiente e occasioni di la voro, ma per una certa condivisione dello spiri to di intrapresa, del senso di imprenditorialità,
dell’idea di progresso.
L’opera di Gianni Mantero rimane a lungo e
ambiguamente sospesa tra mondi formali di versi. È al fondo novecentista; mostra insieme
quanto sia labile il confine tra Novecento e Ra zionalismo. Gianni si laurea con Giovanni Mu zio e può esserne considerato per vari aspetti un
allievo. Lo è nel piglio fattivo e nella volontà di
costruzione; lo è nell’idea di dover costruire una
continuità rispetto alla tradizione; lo è nell’idea
che la tradizione abbia necessariamente radici
classiche. Il Novecento nasce in architettura,
specie in Lombardia, da una predilezione espli cita per l’esperienza del neoclassicismo e, come
Muzio aveva con intelligenza intuito, dall’idea
che essa avesse radici in un’anteriore e radicata
vocazione alla classicità, espressa dalla Contro riforma. Como e il lago sono profondamente
segnati dall’architettura neoclassica, dalla sua
civiltà, dal suo mondo di forme. È in quel pae saggio e in quel quadro che matura l’avventura
moderna.
Il Novecento muove dall’esigenza di semplifica re il repertorio formale, e insieme dall’idea di
poter costruire un nuovo sistema architettonico
riproducendo in effigie e per emblemi gli ele menti della classicità. Lo fa in modi e con de clinazioni diverse, ma lasciando ferma la ricerca
di un’emblematica. Agli ordini e al loro canone
non era infatti lecito tornare, e al bisogno di
classicità non era possibile rispondere in termini
letterali. Il bisogno viene dunque imprigionato
e riportato a un mondo di icone, a un sistema di
forme allusive, come se il sistema classico potes se essere condensato e rinchiuso in un reperto rio di elementi evocati. Il problema era che non
si riducessero a decorazione, che conservassero
densità e senso allegorico, che avessero la capa cità di porsi con valore riconosciuto di apologo.
La Ca’ Brüta di Muzio (1919-1922) aveva indi cato in questa direzione una strada.
Così accade in diversi dei primi edifici che rea lizza Gianni Mantero. Così nel palazzo ad ap partamenti signorili Barazzoni, poi Taroni, poi
Moretti, del 1925-1926, posto lungo il circuito
meridionale delle mura, all’angolo tra viale Vare se e via Garibaldi. Dal punto di vista tipologico
è un edificio d’angolo, elementare nei volumi e
risolto con abilità. Viene esteriormente giocato
su un dualismo di materiali, col travertino delle
Serre di Siena a rivestire il piano terra, a costi tuire i balconi, a incorniciare le finestre, a for mare le fasce bugnate che dividono le facciate
in comparti, e per il resto intonacato in modo
unitario. La pietra crea una trama d’ordine e in sieme costituisce in modo sobrio ed evocativo le
icone della classicità.
Analogo ma diverso è Palazzo Mantovani, sorto
nel 1928-1929 in via Plinio ai numeri 11 e 13,
dunque in una delle zone più dense e delicate
del centro, tra la piazza Cavour affacciata sul
lago e la vicina piazza del Duomo. Di fronte ha
un bellissimo edificio a portici del tardo neo classicismo (1852-1857); accanto il fabbricato
neo-rinascimentale progettato da Federico Fri gerio per la Banca Commerciale Italiana (al n.
15, 1924-1926). Il palazzo vuol testimoniare
una continuità e sperimentare dei suoi modi
possibili. È compartito in modo netto e quasi
antagonistico tra una fascia basamentale di due
piani, occupata dai Magazzini Mantovani, e
una parte superiore ad appartamenti. La fascia
inferiore è a grandi vetrate, suddivise da pilastri
geometrici rivestiti in marmo verde della val le di Roja. Quella superiore è intonacata, con contorni ed icone di nuovo in travertino antico
delle Serre di Siena. Nella logica della partizio ne e nel disegno del basamento vi sono echi da
Adolf Loos. Ma l’edificio, uno dei più belli del
centro, ricorre per contrasto a motivi elaborati e
sottili di decoro.
Per molti versi, e malgrado le differenze, può
reggere un paragone con la pittura novecentista
e la costruzione di discorso che l’accompagna.
Sostiene Elena Pontiggia, parlando dei pittori,
che “lo stile del Novecento originario si racchiude
in due concetti: quello di classicità moderna e
quello di sintesi. Il primo (…) indica la volon tà di ispirarsi all’antico (…). Non si aspirava a
citare, ma a far rinascere. Una tale rinascita do veva essere contraddistinta, oltre che dalla veste
moderna e quotidiana delle reminiscenze, da
uno stile sintetico”. Torna sia in pittura che in
architettura la controversia sull’esito cui deve
mirare un processo di sintesi in campo formale.
“Nel concetto di sintesi, dunque, trovano giusti ficazione le forme puriste, le masse potenti ed
elementari, i tagli netti del Novecento. Pensia mo, per fare solo qualche esempio, ai volumi
stereometrici degli edifici di Sironi. Pensiamo
alle famiglie di donne coi capelli raccolti, lo
scollo rotondo, la veste-peplo senza ornamenti.
(…) Nella pittura novecentista, insomma, le for me vengono sottoposte a una semplificazione
volumetrica che le raddensa e le sigilla dentro la
nitidezza dei perimetri”.
In architettura accade qualcosa di analogo, e la
nitidezza e forza dei volumi vengono perseguite
in modo spesso esplicito, anche se con le atte nuazioni portate dal geroglifico degli elementi
in cifra sovrapposti in superficie. Torna anche
la volontà di confrontarsi con l’antico, ma si
manifesta in modi plurimi e differenziati. Ciò
che rimane è il desiderio di contrastare l’indivi dualismo e il dilettantismo personalistico, indi viduando ragioni solide da porre a fondamento
delle forme. Fatto sta che tra un neoclassicismo
novecentista costruito per emblemi, e un’altra
e parallela ricerca di classicità basata sulla pu rezza formale, sull’equilibrio, sulla proporzione,
sull’assoluto, non v’è a priori contraddizione,
ma in molti casi passaggio e continuità. Così
all’interno del lavoro di singoli architetti e in
particolare di Mantero.
Tra le opere sue cui abbiamo accennato, e quel le successive ascritte in modi a volte discutibili
all’esperienza del Razionalismo, non v’è passag gio lineare né progresso, ma un sistema di echi e
ritorni. La logica di pianta e i modi di partizio ne dei fronti sono simili. Il Tennis club di Villa
Olmo (1929-1932), la sede della Canottieri
Lario (1931), la Casa del Balilla (1933) non
sono un superamento, ma rimangono carichi di
analogie e d’intersezioni con edifici precedenti.
Due osservazioni sono importanti.
La prima è che vi sono una logica e una cultu ra di gruppo, anche se da intendere in modo
non restrittivo o letterale. Ne sono parte figure
che appartengono a mestieri ed esercizi artistici
diversi, legati da una comune implicazione fi gurativa.
La seconda osservazione è che vi sono un altro
tessuto connettivo e un altro quadro unitario
rappresentati dalla città e dai suoi temi. Ogni
città italiana ha un’identità figurativa prepo tente, legata ai caratteri geografici e del pae saggio. Quello dei laghi, e del lago di Como
in particolare, è non solo antichissimo, nobile
e altamente letterario, ma carico di teatralità.
Il carattere incassato dello specchio d’acqua e
la ripidità dei versanti che lo delimitano, crea no un gioco impressionante di compresenze e
rimandi, come se le forme entrassero in riso nanza e gli oggetti si chiamassero a distanza,
per echi e contrappunti. Nel sistema dei con trappunti entrano la città murata, i borghi e le
parti esterne più o meno compatte; i monu menti che emergono; un sistema a volte netto di delimitazioni e i diversi tratti di riva; le ville e
i paesi sparsi; i giardini nella loro frequente ver ticalità e con essi i boschi e le radure; il sistema
delle difese e delle fortificazioni ecc. Da un lato
dunque gli edifici conservano anche dentro la
città un grado forte di individuazione, e con tinuano a porsi in termini di autonomia e di
singolarità; dall’altro corrispondono a temi che
si sono costituiti e precisati nel tempo secondo
una tradizione e con carattere di coralità. Enri co Mantero intuisce nei suoi scritti che l’archi tettura moderna non è estranea a questo spirito
di condivisione e a questa storia particolare, ma
che ne è anzi partecipe, la rilegge e la reinventa.
Intuisce che, a Como più che altrove, l’architet tura moderna è inseparabile da un’idea radicata
di città.
Vi sono temi costitutivi della città. Uno è natu ralmente quello del rapporto tra terra e acqua e
del modo di definirsi della soglia o del confine;
si risolve alla fine, ma non solo, nell’affaccio a
lago, definito in termini lineari con strade di
costa e tipi di lungolago; suppone altre volte
l’interposizione di zone omogenee disegnate e
relativamente compatte; altre ancora giardini
diversamente distesi o inerpicati; in altri casi si
basa sulla formazione di capisaldi. È un tema di
radice antica continuamente interpretato.
Un altro è quello dell’edificio isolato capace di
porsi come perno visuale ed evocativo. Ad esso
corrisponde anche la Casa del Fascio di Giusep pe Terragni (1932-1936): isolata e contrapposta
alla monumentalità del Duomo e alla cupola di
Juvarra; bianca contro il fondale verde del mon te di Brunate; elaboratissima nel gioco interno
delle sue trasformazioni, ma potentemente ed
elementarmente individuata.
Fatto sta che è all’interno dei temi urbani che
vanno lette differenze e relazioni. È la città che
esibisce, nel vivo delle sue parti, la continuità di
opere diversamente declinate, ma lette spesso
impropriamente come antagoniste. Nella nuova
parte a lago, avviata con l’Esposizione Voltiana del
1899, v’è complementarietà tra il Tempio Voltia no neoclassico di Federico Frigerio, il Monumen to ai Caduti futurista di Sant’Elia-Prampolini Terragni, lo Stadio realizzato al centro dell’area
da Giovanni Greppi; e poi tra le opere costruite
in prossimità da Gianni Mantero (la Canottieri
Lario, la Casa del Balilla) e da Giuseppe Terra gni (il Novocomum, la casa Giuliani Frigerio),
e altri edifici legati non solo dal disegno urbano,
ma partecipi di una comune aspirazione. Sono
opere segnate da una ricerca individuale a volte
prepotente, come il Novocomum, eppure pieni
di risonanze tra loro e con i monumenti storici,
gli edifici del neoclassicismo, i palazzi, le ville.
Solo in parte dunque convince un’interpretazio
ne, pure largamente accreditata, che vuol leggere
nella sua autonomia e nel suo presunto carattere
eversivo l’avanguardia comasca, identificandola
tout-court con l’area dell’astrazione, e supponen do in modo troppo semplificato il suo terreno
di crescita nella cultura industriale della città.
Giacché non solo quell’area detta dell’astrazione
è più ambigua di quel che di solito si sostiene,
come ad esempio indicano le radici e gli intrecci
novecentisti di Mario Radice e Manlio Rho, ma
perché il carattere più originale della ricerca d’ar te e d’architettura in terra di Como sta piuttosto
in un grado spinto di sperimentalità che vi è ve nuta assumendo la ricerca interna ai linguaggi.
Tornerò su questo.
Ma voglio di nuovo considerare il ruolo di inter prete svolto da Enrico Mantero e che gli va oggi
riconosciuto, anche se portando alla luce i lati
irrisolti del discorso che ha elaborato nel tem po. Enrico ha ricostruito storicamente la vicen da dell’architettura comasca, con il sentimento
consapevole di appartenere a un gruppo e a una
cultura. La sua è stata dunque una lettura basata
su un certo grado di immedesimazione: ha di segnato una vicenda di cui si sentiva parte o di
cui si sentiva erede. Il ritratto che ha imbastito
della figura di Terragni è sicuramente diverso da
quello di Zevi, ma accomunato dal fatto d’essere
condizionato da coinvolgimento e da passione, e
dunque da una propensione al mito. Ciò porta, come non può che essere, al fraintendimento,
ma consente al tempo stesso di cogliere aspetti
e verità trascurate.
Tre sono, mi pare, gli aspetti di rilievo che Man tero introduce nei suoi libri principali e nei suoi
testi sparsi. Il primo, cui ho già accennato, è un
senso prepotente del ruolo della città e l’idea che
il lavoro degli architetti nasca comunque da essa
e in essa si risolva; che non vi sia ricerca sugli
edifici che possa rimanere separata da quella sul
corpo urbano e sul paesaggio; che rimanga deci sivo il legame con un mondo figurativo plurale
e radicato.
Il secondo aspetto è di avere inteso una parti colarità significativa del Razionalismo comasco,
e cioè la sua capacità di sviluppare, più di quel
che accade altrove, il valore rappresentativo ed
emblematico degli edifici. Un’emblematica per
vari riguardi diversa da quella novecentista de gli elementi classici, più astratta e cifrata, chiusa
in un suo mondo di volumi e geometrie, legata
per vie misteriose ed allusive alla città, capace di
pregnanza e densità tali da conseguire talvolta un
carattere esplicitamente monumentale.
Il terzo aspetto è di avere accettato l’esistenza di
una pluralità di ricerche e di cammini formali e
di averli considerati nel loro intreccio: spinto a
questo anche da ragioni familiari e dal desiderio
di ascrivere la vicenda del padre al campo della
modernità e del Razionalismo. Ha letto così la
vicenda dell’architettura razionale non per vie in terne e in base alle sue giustificazioni, ma come
reinterpretazione di un’idea storica e di un sen so radicato del decoro. Sapendo che del decoro
sono possibili concezioni diverse, e che esse si
sono ad esempio manifestate nelle tante e diverse
strade assunte dalla ricerca di Terragni. Raziona lismo ed eredità novecentista sono visti nel loro
sovrapporsi e nella labilità dei loro confini, e le
esperienze nei campi delle arti nel loro continuo
interferire con l’architettura.
Ma Enrico Mantero è stato sia architetto che
professore. Ha ricoperto un ruolo e l’altro con
passione di ricerca e partecipazione emotiva. Nel
mondo della scuola e dell’elaborazione culturale
hanno contato per lui soprattutto due riferimen ti: da un lato la figura di Ernesto Nathan Rogers,
di cui Mantero è stato assistente; dall’altro quella
di Guido Canella, di cui era di pochi anni più
giovane. Ma ha insieme pesato la collaborazione
proseguita nel tempo con Lucio Stellario d’An giolini e il suo approccio all’urbanistica e alla cit tà. La città, anche quella che a Mantero era così
nota e familiare, veniva considerata nel sistema
delle sue dinamiche interne, dei suoi sviluppi,
delle sue tensioni: come esito di un processo e
di uno scontro di forze, nel resistere e nel ridi segnarsi dell’insediamento a partire dalla spinta
delle attività.
Fatto sta che anche la vicenda storica del Razio nalismo, e in particolare la figura e i progetti di
Terragni, vengono riportati a un quadro urbano
di contraddizioni e tensioni insediative, e insie me a un quadro di aspirazioni e disegni di rifor ma, istituendo un sistema troppo diretto di nessi
tra fenomeni insediativi, istanze ideali, mondi di
figure. Sarà Manfredo Tafuri, in un suo saggio
famoso, a stabilire una diversa linea di interpre tazione. Giacché, sostiene Tafuri, in Terragni e
sin dai primi progetti “la lingua appare tutta già
data. Non v’è spazio che per un lavoro all’inter no di essa: anche se tale lavoro dovrà dividere,
separare, sciogliere nessi. Al di fuori di quel la voro analitico, per Terragni, non v’è nulla: nes sun discorso, nessun messaggio, nessun rumore.
Il dialogo avviene tutto all’interno della scrittura
architettonica; mai esso fuoriesce, mai esso divie ne polemica rispetto al mondo come lo trovai. La
profonda antipatia di Pagano per Terragni ha qui
la sua origine: il moralismo del direttore di “Ca sabella” si scontra con gli atonali aforismi – del
tutto amorali – dell’architetto comasco. Non a
caso la critica italiana si trova così spesso in dif ficoltà rispetto alla figura di Terragni, da un lato
ripetendo, magari con toni più sofisticati, gli in sofferenti giudizi di valore di Pagano, dall’altro
tentando disperatamente di riportarne l’opera
all’interno della rassicurante dimora del movi mento moderno”.
Professore, studioso, architetto, costruttore. Di
Enrico Mantero dobbiamo provare a ridisegna re la figura, senza la pretesa di ricomporla e di
ricondurla ad unità. È vero che nell’insegnamen to ha portato l’amore e la competenza maturati
nell’esercizio del mestiere; ed è vero che il suo
lavoro di architetto è venuto assumendo una di mensione che gli studi e le riflessioni gli hanno
conferito nel tempo, sino a mutarne il carattere.
Ma dobbiamo accettare che tra l’opera e l’ela borazione di pensiero rimangano distanze e di vergenze. Come accade sempre, ma come vale
in particolare per lui, giacché assai diverse sono
state le spinte ideali e i mondi di riferimento che
hanno pesato sul suo lavoro.
Nel lavoro professionale e nell’idea di mestiere
ha contato in modo evidente il padre, per il qua le Enrico aveva rispetto e ammirazione, e con il
quale ha condiviso lo studio e diversi incarichi.
Del padre ha in vari casi ripreso e adattato le ope re. Anche se rivendicando la propria personalità
e la propria autonomia, vi era forte il sentimento
di un’eredità che doveva essere raccolta e conti nuata.
Le opere di Enrico Mantero sono in modo evi dente di matrice razionalista. Escono tuttavia
dall’identificazione dell’edificio con una figura
riassuntiva e uno schema elementare. L’edificio
è pensato come organismo complesso da scom porre in parti e articolare in corpi. Dietro v’è
un’analisi delle attività, dei modi in cui interfe riscono, dei significati che assumono. Le si porta
a sistema e le si inscrive in un diagramma. Le
si mette “in rappresentazione”, convertendole in
gioco e in contrappunto di forme e di volumi.
L’obiettivo è di “mettere in scena” un quadro di
rapporti, cercando di conferirgli volto ed espres sività e immaginando l’edificio come teatro del la socialità e dei suoi riti. A volte l’architettura
perde per questa via di icasticità: ma è un modo
diverso per cercarne la legittimità e per fondarne
le ragioni. Così accade, anche in relazione all’an damento del terreno, in diverse delle sue scuole
più belle, come in quella media in frazione di
Albate a Como (1971), o come nella elementa re di Olgiate Comasco (1975), o come nell’altra
media in comune di Lipomo accanto a Como
(1983). Ma il discorso sulle opere e sul lavoro di
Enrico Mantero è tutto da aprire.

[DANIELE VITALE da MANTERO: CENTO ANNI DI ARCHITETTURA]