La Casa di Riposo di Sale Marasino (BS)

Erano gli anni Sessanta, e tutto iniziò entro quel corso del Terzo anno atteso da noi studenti della seconda metà di quel decennio di radicale trasformazione della società italiana, da quelli almeno che avevano attinto alle letture della “Casabella” rogersiana. Dopo un biennio propedeutico che pur aveva avuto interessanti spunti – Pollini, Gregotti, Tintori –, appariva come una pietra miliare del nostro
cammino. Un corso che, unitamente a quello
di Urbanistica tenuto dai professori Bottoni,
d’Angiolini e Meneghetti, avrebbe dovuto se gnare il definirsi di un momento paradigmati co della nostra formazione. Il corso di Elemen ti di Composizione era stato impostato all’ori gine dal prof. Ernesto Nathan Rogers e poi
proseguito con significative innovazioni dal
prof. Guido Canella. Era l’anno accademico
1967-1968, quando iniziai quel lungo dialogo
con l’allora ancora assistente Enrico Mantero,
che solo di lì a poco sarebbe divenuto professo re. Quell’anno il tema del corso, dopo un lun go dibattito che aveva avuto una qualche eco
tra noi studenti, non sarebbe più stato legato
allo studio di sistemi funzionali (istruzione,
università, teatro, ecc.) soggetti di ampio respi ro che erano stati nella tradizione di quella
scuola e che avevano portato alla pubblicazio ne di testi fondamentali come l’Utopia della
realtà e, più tardi, del Sistema teatrale a Milano;
non dunque le grandi funzioni della vita asso ciata che si articolavano in sistemi insediativi
regionali ed urbani. Il tema sarebbe stato, qua si antiteticamente, riferito ad una istituzione
totale e tra queste a quella al massimo cogente
nella sua realtà segregativa: il carcere. Ricordo
allora le difficoltà del sottoscritto. Perso il rife rimento sicuro, forse troppo positivisticamen te da me concepito, fondato su un rilievo fun zionale delle attività quale mi attendevo, resta va la necessità del cercare il superamento di
un’impostazione ideologica o sociologica del
tema solo nella via stretta che lo riportava alle
ragioni dell’architettura. Giustapporre alle lu cide immagini del panottico benthaniano le
immagini delle nascenti tipologie cinquecen tesche degli ospedali grandi con le loro artico lazioni per corpi di fabbrica – per percorsi, per
piani, per principi, per separazioni di percorsi
brutti e netti – apprendere e applicarsi al fou coltiano esercizio dello sguardo clinico, risco prire certi impianti e caratteri distributivi delle
residenze collettive fino a certe strutture dei
sottocoperta delle navi, altri straordinari luo ghi di segregazione, fu così l’occasione per un
difficile esercizio di apprendimento. Questo si
corroborò nel confronto con i punti di vista di
chi si presentava, prima di tutto, come un gio vane architetto che in quei tempi faceva valere
quasi ereticamente le ragioni di un mestiere
collocabile nella tecné dei processi di civilizza zione materiale e poi nelle astrazioni della trat tatistica. Questo fu il primo contributo che
seppe fornirmi Enrico Mantero, il quale, po chi anni più tardi, sarebbe divenuto anche per
me comascamente Chicco, avendomi incluso
nella cerchia degli amici. Le revisioni del pro getto del carcere furono così l’occasione di un
primo confronto, che sarebbe continuato nel
tempo, tra chi compositivamente ricercava nella
tipologia il precipitare di una sintesi – materia le, linguistica, civile – e chi ne cercava le ragio ni insediative più ampie, spazianti dall’oriz zonte geografico-culturale a quello urbanistico.
Questo confronto poneva entrambi alla ricerca
di un’architettura non vista attraverso i pur
importanti canoni filologico-critici degli exem pla, quanto rivista attraverso quelli dei processi
di civilizzazione materiale, e non solo. Da allo ra molti sono stati i filoni di una ricerca che lungo più di trent’anni ha impegnato Enrico
Mantero e il sottoscritto in un assiduo dialogo.
Ricerca fondamentalmente incentrata sui mol ti temi di un’architettura non vista solo iuxta
propria principia, non ricostruita solo attraver so le vie di una storia interna ma aperta allo
studio delle impronte dei processi di civilizza zione o, per dirla con gli illuministi lombardi,
di incivilimento. Una ricerca e un dialogo che
si sarebbero declinati su diversi piani: da una
comune attività di didattica universitaria ai
rapporti tra impegno amministrativo, da parte
mia, e attività professionale da parte sua. Ora,
non spettando certo a chi, come me, non ne
ha le competenze pur necessarie, la ricostruzio ne filologico-critica dell’opera di Enrico Man tero, non cercherò di porne la figura in un più
o meno utile pantheon degli eroi nazionali
dell’architettura – e tanto meno nell’omolo gante odierno scenario internazionale – quan to in quello più circoscritto, ma a mio modo di
vedere ben più necessario, di una contestualità
storica e geografica in cui ha operato e di cui
ha saputo reinterpretare i caratteri originari, i
linguaggi, gli alti momenti di poesia ma anche
i più diffusi brani di prosa, racchiusi nella con testualità insediativa e architettonica dei luo ghi, nel suo caso, spesso ma non solo, natii. Per
altro negli odierni momenti di profondo spae samento, che non è solo perdita d’identità dei
nostri riferimenti insediativi (strutture urbane,
unità di paesaggio, complessi funzionali, ecc.)
ma anche sfilacciamento del nostro tessuto ci vile, credo non sia inutile cercare di contribui re, attraverso la testimonianza di un comune
lavoro, alla ricostruzione della figura di un ar chitetto, così egli amava, ancor prima che
come professore, esser riconosciuto. Architetto
che è stato capace di essere, con straordinario
impegno e coerenza civica, progettista, profes sore e professionista, architetto che non si con cedeva all’architettura dei non luoghi e del
facciatismo e che mai si sarebbe allineato a
quella del junkspace. A tal proposito ricordo
come la stessa intelligenza delle mani che si in scriveva nei segni dell’inseparabile Caran
d’Ache fosse alla base del lavoro di chi seppe
essere ad un tempo politecnico sperimentatore
della scuola milanese e architetto comasco,
due caratterizzazioni queste da lui profonda mente vissute. Ricordo come ciò abbia guidato
il disegno, in primis quello didattico dei lavori
al tavolo con gli studenti, ma anche gli acqua relli dei suoi rilievi sul campo e come da tutto
ciò la sua opera, il suo artigianale lavoro, traes se linfa per porsi in dialettico confronto con
una continuità costruttiva che stava nel solco
di una ragione comasca che dalla lunga durata
comacino-antelamica giungeva alle stagioni
del dibattito ottocentesco sul recupero del ro manico lombardo, per poi passare a rivisitare,
attraverso la figura del padre, gli echi di movi menti europei del primo Novecento, per giun gere all’approdo fondamentale ma non finale
del Razionalismo comasco, con ciò configu rando il definirsi di una opera sempre consape vole, eticamente contenuta, nella misura, nella
schiettezza dei materiali e degli intrecci com positivi, nelle metriche delle cifre stilistiche.
Ma ricordo per altro anche il suo orizzonte po litecnico, la sua partecipazione al dibattito e
alla sperimentazione che la scuola milanese di
quegli anni proponeva. Così ricordo quel se condo momento di dialogo tra noi che si deli neò in quegli anni Settanta, caratterizzati
dall’atmosfera dell’aula Quinta, che portaro no, dopo l’intervento ministeriale e il commis sariamento, alla presidenza Beguinot. Molto
fu messo sulle spalle del giovane professore En rico Mantero, oltreché del prof. Lucio Stellario
d’Angiolini, a cui un gruppo di neo-contratti sti, tra cui il sottoscritto, davano la loro colla borazione. In quegli anni la scuola iniziò a
coinvolgere, in uno sforzo di acculturazione e
in un tentativo di istruzione permanente, gli
studenti serali, per lo più professionisti geome tri. In quegli anni proprio la scuola serale ci
portò a rivisitare la figura di Carlo Cattaneo e,
attraverso di essa, a confrontarci nella rilettura dell’identità culturale e dell’articolazione delle
strutture insediative lombarde, a riconoscere la
necessità di quel doppio scambio tra architettu ra e urbanistica che altri, miei maestri e suoi
colleghi quali d’Angiolini e Canella, praticava no. Due temi su tutti: quello dell’istruzione e
quello delle periferie storiche. In quegli anni il
mondo dell’istruzione era segnato da un parte cipato dibattito che investiva la scuola dell’ob bligo e verteva sull’orizzonte della sperimenta zione didattica. Esso così si contrapponeva a un
orizzonte progettuale istituzionale e tecnocrati co filtrato da una manualistica ministeriale. Per
altro l’allargamento della base dell’obbligo e il
rinnovamento di una prospettiva didattica
comportavano anche nuove forme di accessibi lità alle attività dell’istruzione secondaria di tipo
superiore, nuove scelte localizzative, nuove defi nizioni di bacini di utenza e nuove tipologie di
plessi scolastici. Ricordo allora come il tema
dell’istruzione, a partire da quelle aree deboli
della bassa lombarda, che il gruppo Mantero
studiava, sia stato occasione di una rivisitazione
della storia delle scuole rurali e della loro con trapposizione più che articolazione nei con fronti delle scuole civiche. Tutto ciò era espres sione del nuovo urbanesimo della rivoluzione
industriale e, confrontato con quanto fatto dal le amministrazioni urbane, capaci di gestire i
quadri di dotazione scolastica – si pensi all’in tervento boitiano di via Galbani a Milano –
ampliandone l’uso alle scuole serali, domenica li, ai turni e al tempo pieno, corroborava una
ricerca in merito alla militante personalità di
realtà urbane che vivevano il tema dell’autono mia amministrativa. Tutta questa riflessione
entrò profondamente nella progettazione di
edifici scolastici di vario grado che alcune am ministrazioni provinciali e municipali coma sche in quegli anni gli conferirono. A ciò si lega
anche il tema dello studio delle periferie stori che, in particolare quello connesso ai poli del
secondo ordine di Como e di Lecco, non visti
come espressione omologante della conurbazione e come tracimazione del concentrico mi lanese, ma come cerniere di relazioni infrastrut turali capaci di connotare una storia contestuale
che rafforzava la personalità di quella singola
polarità urbana.
Non mi soffermo a considerare gli anni Ot tanta perché su questo periodo vi è nelle rivi ste – i “Quaderni del Dipartimento”, che allo ra Mantero dirigeva in qualità di direttore del
Dipartimento di Progettazione, “Costruire”, il
“Moderno” – e nelle pubblicazioni – tra le altre
“Engiadina Citta Porto”, il “Porto del Pireo”
– una qualche testimonianza; furono questi
gli anni che intorno al tema del policentrismo,
ovvero dell’ambito metropolitano policentrico,
ci portarono a praticare comuni esperienze in ternazionali, ricercando matrici entro orizzonti
di civilizzazioni europee: il seminario di Delft,
i lavori col Politecnico di Atene, il ciclo di con versazioni sul Sistema alpino e il seminario di
Livorno sulle Città porto italiane.
È piuttosto agli ultimi anni Ottanta e agli anni
Novanta che vorrei riportare l’attenzione per
evidenziare alcune possibili chiavi di lettura,
utili a meglio definire la personalità di Enrico
Mantero. Furono questi anni segnati da una
nuova forma di dialogo che maturò tra noi, ri portabile a piani più diretti di confronto con gli
ambiti amministrativi e gli enti locali. A tal pro posito voglio ricordare due momenti. Il primo
è legato a un’occasione che ci venne data dalla
nostra origine e residenzialità lacustre, la quale
ci aveva portato ad alcune comuni riflessioni sul
destino delle linee di costa. Ora in riferimento
a un tema così fragile e delicato come quello
dei lungolaghi, avevamo dietro le spalle le testi monianze di esperienze importanti a partire da
quelle di risistemazione dei fronti intermodali
delle città porto, per passare a quelle di Kurort, per giungere a quelle di consolidamento
e bonifica di conoidi di deiezione come quel lo comasco del Cosia attraverso il definirsi di
nuove fondamentali pubbliche funzioni della
vita associata. Attraverso di esse passava tutta
una storia di attente esperienze progettuali. Al
contrario in quegli anni, su quelli che ritenevo,
in quanto bresciano e lacustre, i miei laghi – il
Garda e l’Iseo – venivano avanti una serie di
progetti, i più incolti e violenti, fatti di passe relle a lago, di rigide piastre che inglobavano
porti turistici, ecc. Chiesi allora a lui e a Eli sabetta Terragni di venire a illustrare la portata
e gli esempi di una progettualità comasca che
era stata capace di contrastare questa tenden za. Su un tema tutt’altro che facile da veicolare
essi riuscirono argomentando con l’esempio di
sapienti misure adottate in quei progetti a con trastare le dismisure di quei neotecnici progetti
di valorizzazione delle linee di costa.
Il secondo momento ci riporta a quando, su
incarico dell’amministrazione comunale di Sale
Marasino, Mantero venne ad illustrare la prima
bozza della Casa di Riposo e, in una sede come
l’aula consiliare normalmente atta a sentire trat tare solo di conti e di tecnicismi, mostrò tutta
la sua straordinaria capacità e disponibilità di
ascolto nei confronti della gente e dei luoghi.
Fu così che spiegò agli amministratori e al pub blico intervenuto, come nella realtà quasi unica
del nostro ampio anfiteatro morenico laterale
di Sale, la doppia matrice dei nostri edifici fosse
riportabile a un doppio affaccio: quello di tra dizione microclimatica rurale e manifatturiero
del mezzogiorno, e quello aulico e paesistico
dell’occidentale fronte lago. Spiegò inoltre
come questi giocassero un ruolo fondamentale
nella costruzione dei principi microurbanistici
e insediativi di quei luoghi, e come tutto ciò
potesse improntare una tipologia architetto nica, dando così vita a un progetto capace di
asservire a un’idea tipologica i vincoli della normativa.

[GIOVANNI TACCHINI da MANTERO: CENTO ANNI DI ARCHITETTURA]